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Politica. Meridionalismo. Blues.

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lunedì 31 dicembre 2018

Il cenone e gli Auguri.


Sono contento di avere vissuto il 2018. Lo dico come se fosse uno slogan, perché questo anno è stato in realtà molto impegnativo, anche doloroso, con eventi che però hanno mitigato verso la fine le tristezze che lo hanno caratterizzato.
Gli slogan mi perseguitano. Credo che anche voi siate perseguitati senza pause (sempre che alcuni di voi non li creino per i motivi più diversi) da questo modo spiccio e risolutivo di definire e circoscrivere i problemi e giustificare appartenenze complicate, politiche e sociali in genere. Almeno quelli pubblicitari sono allettanti!

Gli slogan politici più ripetuti in questi giorni sono, per esempio e in ordine di “maggioranza”:
1)      La manovra distribuisce 20 miliardi agli italiani;
2)      La manovra impoverisce gli italiani.

A distanza, si prosegue con:
3)      Non si mettono le mani in tasca degli italiani;
4)      I pensionati, i giovani, i dipendenti saranno colpiti da una crisi senza precedenti.

Posso dirmi stufo di ribattere senza spiegare, di leggere senza poter capire, di tifare senza ragione tutta una serie di argomenti? Si che posso, ma nella solitudine assoluta, nello sfottò banale, nella serietà perduta dei social.
E con piacere e soddisfazione, quando mi imbatto in post in cui si cerca di spiegare la propria posizione, mi soffermo e apprezzo l’impegno. Adoro il cazzeggio, la metafora, lo sfottò, la battuta.

Tornando al tema di questo post, il linguaggio e quindi anche lo slogan sono frutto, ora, di una attività di pensiero debole. Nella tendenza, tutta italiana, della semplificazione del pensiero e anche del lessico, ci sono sempre poche espressioni, allusive o patetizzanti e si vogliono controllare le emozioni, proprie e altrui, cercando di essere più tranquillizzanti o allarmanti.
Usando un modo si esprimersi povero, fatto di poche parole, senza articolazioni, contraddistinto da un alone indefinito che costringe alla ripetizione di concetti scontati e non verificati, all’utilizzo smodato di metafore e orientato a un valore espressivo totalizzante e definitivo, si rifiuta la complessità della società.
Si cerca l’esasperazione dei toni per coprire il vuoto crescente, l’assenza di responsabilità delle persone che si autoeleggono giudici, sempre più lontane dall’essere collettività, accompagnati soltanto dal pensiero individuale. Le parole diventano retoriche, senza capacità di movimento e prive di significato, senza intelligenza e perdendo credibilità.
Slogan e frasi fatte hanno fatto perdere al linguaggio la sua capacità interpretativa. Non si spiega più, si tifa. La compressione linguistica che ha caratterizzato gli ultimi venti anni, presente a mani basse nei social, porta a un continuo “botta e risposta” inutile. Privo di eleganza e senza cura né garbo, il linguaggio è piegato a comunicazione di servizio, primitiva ed elementare. Il suo impoverimento è frutto di un passaggio dal pensare al fare, da strumento del pensiero critico si è trasformato in arnese del fare.
Ma le parole implicano ascolto, ormai in caduta verticale, e fiducia; per capirsi e restituire al linguaggio la sua identità bisognerà sostenere i loro infiniti significati e riscoprirlo come strumento di dialogo e di conoscenza.
Buon Anno a tutti, spero calorosamente che almeno questo argomento si condivida.


venerdì 28 dicembre 2018

Muddy Waters, l’energia nel Blues.


Ho trovato in Muddy Waters la carica di energia che cercavo nel Blues. E’ il Blues assordante e intossicante dell’interprete più rappresentativo e decisivo della storia di questo genere musicale che ci voleva per rivoluzionare come una valanga un placido torrente come il Blues degli anni ’70. Non suonava accordi, non seguiva niente di scritto. Suonava note, sempre note di blues.
Un suo pezzo, per dimostrare la carica energetica che sprigionava soprattutto nei concerti – Rolling Stones, del 1950  – convinse Mick Jagger a dare questo nome al mitico gruppo rock.
Le sue canzoni richiamano costantemente il country blues più puro, quello delle censurate (!) canzoni dei lavoratori afroamericani. Lo slide era predominante, la sua particolarità era di allungare o abbreviare le strofe; questa abitudine gli fece frequentare più avanti anche ambienti jazz, con buon successo.
Diceva del blues: “I neri sono i migliori cantanti di blues. I bianchi tentano di suonarlo… ma a modo loro”.
Al suo attivo si contano tre Grammy consecutivi, nel 1977,1978 e 1979.
Lo ricordo ancora, quel pomeriggio passato al cinema, qui a Siderno, a vedere con altri cari Amici il film “The Last Waltz”, l’addio artistico del gruppo The Band firmato da Martin Scorsese. Muddy Waters era tra gli ospiti. Ricordi in polvere, con l’audio imperfetto ma da spettacolo definitivo, che aprì alla conoscenza di generi musicali alternativi. Siamo nel lontano 1976, chissà se qualcuno ricorda…

Questo è il “suo” pezzo preferito, come disse più di una volta, mi va di essere d’accordo…
Long distance call, lo slide nel blues diventa legge.

lunedì 17 dicembre 2018

John Lee Hooker, The Boogie Man, emblema autentico del Blues.


John Lee Hooker usò sempre la chitarra acustica. Questo lo fece diventare il precursore della moda “unplugged”. Lo stile di questo grande maestro, la cui voce profonda ed espressiva è sostenuta da un ritmo elettrizzante, è da interprete integro e non compromesso con le mode musicali. Utilizzò sempre il verso libero, marchio di fabbrica inconfondibile, che lo designò improvvisatore e paroliere diretto e incisivo. Tuttavia in diversi brani non disdegna l’antica usanza dei più vecchi bluesman  del sud che utilizzavano lo slang e i doppi sensi molto presenti nel linguaggio colloquiale della comunità nera ma difficili da capire per il pubblico bianco, la qual cosa provocava giubilo fra i neri.
E’ e sempre sarà “The Boogie Man”. La sua voce, il modo di suonare la chitarra, l’utilizzo delle scarpe battute in terra come percussioni, hanno costruito uno stile ossessivo, drammatico, coerente sempre. Ognuno dei pezzi che ha scritto è basato su una storia vera, personale o no.
Hooker “picchiettava” le corde della chitarra, ottenendo un ritmo insistente. La sua voce, particolare perché John era affetto anche da un piccolo “difetto di vocalizzazione”, ottiene l’effetto di approfondire l’interpretazione, spesso profonda e grave nei pezzi più drammatici e giovanilmente contagiosa in quelli di boogies.
Una annotazione personale: la mia passione per il Blues trova in Hooker il punto iniziale e il punto di arrivo, l’emozione fatta musica. Insomma, un vero spasso. Come lui, tutti dovremmo dire “la cattiva sorte non può nuocermi”.

Vi propongo un pezzo tratto da “The Healer”, il disco del 1989 che gli valse il Grammy.
The Healer, con Sua Maestà Carlo Santana.

venerdì 23 novembre 2018

La bella storia breve dei The Yardbirds.


Il trio formato da Eric Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck durò il tempo necessario per fare del blues storico un punto di partenza, in attesa di pervenire alla fantastica storia della Stratocaster di Clapton. Negli anni ’60 il pubblico impazziva per i Beatles e gli Stones, ma questi tre artisti emersero a partire dal 1963 e rappresentarono, per i molti che cercavano il blues nei pochi spazi disponibili, anche non afroamericani, una meta sospirata e meritata. Nella confusione degli anni sessanta, The Yardbirds finalmente rappresentavano un punto di arrivo per le attese di un pubblico esigente. La formazione cambiò diverse volte, con Chris Dreja, Keith Relf, Paul Samwell, Jim Mac Carthy.
L’anima del gruppo era Clapton, lo conosciamo bene il musicista inglese che ebbe il tempo di fondare anche The Cream, il focoso gruppo rhythm&blues che ebbe un’influenza decisiva nella nascita dell’Hard Rock. E pensare che entrò nei Yardbirds per sostituire il chitarrista.
La produzione del gruppo, con Clapton presente, consiste in un primo disco, Five Live Yardbirds, che seguiva singole escursioni con mostri sacri come Sonny Boy Williamson. Seguiva la raccolta Blues, Backtracks and Shapes of Things, una splendida retrospettiva del gruppo che bisogna necessariamente andarsi a cercare per regalarsi un blues più europeo, elettrico, che inchioda allo stereo.
Vi propongo il pezzo che introduce senza equivoci il blues di Clapton e soci.
“24 Hours Too Long” è raffinato, colto, inimitabile nella esecuzione di un giovane e promettente Eric Clapton.

Ottimo ascolto.

domenica 21 ottobre 2018

La Legge dei sinonimi.


Si tratta di considerazioni a “mano libera” per sorridere sull’uso di alcune parole, anzi di una in particolare, e dei sinonimi (che naturalmente non esistono, almeno per molti di noi). I cosiddetti sinonimi presentano numerose insidie, faccio un esempio tratto da un brano di Buzzi:

“Come sta?” dissi.
“Ho preparato una proposta da sottoporre al ministro della giustizia per punire una categoria di persone che mi dà fastidio in modo particolare.”
“Per esempio?” dissi.
“Per esempio quelli che, dopo aver nominato New York, se devono nominarla un’altra volta, dicono la Grande Mela. Per questi la pena dovrebbe essere l’ergastolo.”
“Accidenti!” dissi.
“Sì, ma non solo per questi. Anche per quelli che, dopo aver nominato il dollaro, se devono nominarlo una seconda volta, dicono il biglietto verde; o, se devono nominare l’oro una seconda volta, dicono il metallo giallo. E stessa pena per quelli che dopo il pallone, invece di ripetere il pallone dicono la sfera di cuoio. Ergastolo senza le solite riduzioni di pena.”
(La lattuga di Boston)

Ecco, il terrore delle ripetizioni ossessive viene dai tempi della scuola, così come l’uso “politico” per parole dignitose come “ONESTA’” (una a caso, il cui significato spesso ignoriamo).
La voglia di “colpire” il lettore o l’ascoltatore è uno degli obbiettivi da raggiungere nella scrittura persino nei social e le ripetizioni possono essere molto utili. Ma è sbagliato credere e far credere che la ripetizione ossessiva di una parola sia il male o il bene assoluto. Per me, i sinonimi  inutili (o presunti sinonimi), stupidi, sbagliati sono peggio, per chi si agita in politica o nell’antipolitica.
La lista dei sinonimi di “ONESTA’” è la seguente, secondo un rinomato dizionario dei sinonimi e contrari: CORRETTEZZA, INTEGRITA’, LEALTA’, PROBITA’, RETTITUDINE. Ma anche, nell’estensione del concetto di “qualità di persona o cosa degna di considerazione e rispetto”: COMPOSTEZZA, DECORO, DIGNITA’, GENTILEZZA, NOBILTA’ (d’animo).
Insomma, una lista del genere amplifica i problemi che hanno sempre avuto coloro che rivendicano l’uso smodato del termine. Per questo un elenco serve a poco, se ogni parola non è accompagnata da esempi che ne chiariscano il significato, la costruzione, il registro. Volete fare danni con quella lista? Inculcate l’idea che “ONESTA’” sia una parola povera e banale, da usare il più possibile. A questo punto, pur di usare o ripetere “ONESTA”’, si sceglierà di aggiungere, per rafforzare il concetto, una parola a caso nell’elenco, scrivendo magari, insieme a “ONESTA’!”, “GENTILEZZA!”.

 

Perché, alla fine, cercare un “sinonimo”?

- Perché ci serve la parola giusta, quella che esprime nel modo più preciso ed efficace la realtà 
  che vogliamo comunicare;
- Quando dobbiamo adeguare ciò che diciamo o scriviamo al registro (più informale o più
  elevato) che abbiamo scelto;
- Quando vogliamo evitare frasi fatte, cliché, parole vuote (per esempio shock, stress
  l’aggettivo carino… - associato ad ONESTO, francamente, è ridicolo);
- Quando occorre eliminare una ripetizione veramente molesta;
- Quando vogliamo essere espressivi, per colpire chi ci legge o ascolta.

La lingua italiana è strepitosa, ma l’ironia è lì che ti aspetta. Non usare ONESTA’ se non si può associarla alla realtà. Fa malissimo, viene l’ulcera agli onesti.