La
cittadinanza è l'appartenenza di una persona a uno Stato, ci hanno insegnato. Sto
costatando in questi anni che essa delimita il confine tra il “cittadino” o la persona
che non la detiene o si trova in condizione diversa. La cittadinanza si dovrebbe,
a detta di conoscenti e amici in numero sufficiente per discutere sulla
questione, “meritare”, con la partecipazione alla realizzazione e al mantenimento
di un patrimonio sociale comune. Già questa regola, semplice e aperta, tiene insieme
a fatica la società sul tema.
Secondo
uno schema un po’ noioso, per godere della cittadinanza bisogna essere liberi, bisogna
poter votare i propri rappresentanti, avere anche gli strumenti e i mezzi per
partecipare alla vita sociale da persona civile e consapevole.
La
cittadinanza “per meriti acquisiti dalla nascita” viene oggi riscoperta e
rivendicata probabilmente per il clima politico e culturale di questi anni, con
lo stato sociale in forte declino e il collasso dei motivi che “costringevano”
i cittadini al mutuo aiuto, inteso come valore sociale.
Ora
invece vengono confrontati i “diritti del cittadino” con i “diritti dell’uomo”,
mettendo in conflitto due diversi aspetti che per complessità, ma anche per umanità,
dovrebbero avvalersi di due piani di comprensione e elaborazione diversi. Le
richieste di pari dignità di tutti i presenti nello stesso momento sul
territorio italiano vengono così facilmente divisi tra coloro che avendo cittadinanza
possono esigere a squarciagola i diritti che ritengono negati e chi non ha
cittadinanza “regolare”, che può essere trattato come indesiderato e deve
relegato alla fine della lunga coda in attesa. La fila comprende anche i
diseredati italiani, inascoltati sempre.
Risolvere
i problemi della convivenza civile in Italia con la sola versione dei “diritti
del cittadino” sembra troppo semplicistico. La libertà di cui una persona può
godere in uno Stato, soprattutto se l’esigenza riguarda un periodo limitato e
si trova in condizioni di lavoro precario o di richiesta di asilo politico, non
dovrebbe essere in discussione. La separazione degli individui tra chi è
“cittadino” e chi ha uno status diverso contribuisce a disegnare una società divisa,
non inclusiva e non capace di dare responsabilità autentiche ai governanti di turno
sulle diseguaglianze praticate a fini elettorali. E si realizza la categoria
degli emarginati, che mai riusciranno a “essere degni” di essere italiani completamente.
Sembra
anche che l’appartenenza a una data parte politica dia al cittadino più
possibilità di ottenere diritti sociali esclusivi basati sul diritto di cittadinanza.
Come se taluni partiti nati, cresciuti e pasciuti intorno al contrasto
dell’ospitalità e alla pratica odiosa della rivalità tra persone residenti
nello stesso Stato, avessero più titoli per portare il vessillo
dell’italianità. Questa cosa molto strana e provinciale è snobbata da molti
intellettuali come teoria da bar, mentre è la mancanza di autorevolezza della
classe politica, aiutata dagli slogan di nuovi movimenti falsamente populisti,
a scatenare e fomentare forme di intolleranza anche tra italiani.
Se
l’uguaglianza ha un senso, sostenere l'individuo significa guardare all'ordine
politico dal basso verso l'alto, a partire dal soggetto. Significa anche fare
del soggetto un problema risolvibile.
Si
sta rendendo cronica la condizione precaria di molte persone in Italia. A chi
serve questo modo di “non gestire” i fenomeni sociali? Una risposta l’avrei e
in fondo anche molti altri intorno a me. E’ anche vero che avvertire il senso
di disagio non aiuta se non è seguito dal consenso necessario per provocare
cambiamenti nelle politiche. In questa lunga fase “precaria” non si vedono
sviluppi positivi in questo senso.
Ed
ecco le annunciate espulsioni nei confronti di chi in Italia è ospite “non
gradito” e contratti di precariato per chi non è raccomandato, non ha studiato,
non ha denaro per comprare titoli di studio, ha opinione politica diversa dagli
urlatori al governo. Sempre espulsioni sono.
La
cittadinanza è un concetto parziale che ha risvolti anche geografici. L’appartenenza
a territori periferici come i Sud del nostro Paese mette gli italiani in
condizioni di svantaggio rispetto alle aree geografiche del Nord. E questo a prescindere
dall’”onestà”, dalla preparazione scolastica, dai titoli, dalla normalità delle
aspettative di una famiglia “normale”.
L’uguaglianza
non si realizza, in Italia, neanche rispetto al genere: le donne sono
retribuite meno degli uomini, a prescindere dal ruolo ricoperto nelle aziende
pubbliche o private. Questa condizione, sempre presente nella nostra società,
non è affrontata dai governi, semplicemente e drammaticamente. Se l’arretratezza
culturale non consente di gestire le priorità a partire da queste evidenze
possiamo dubitare fortemente che l’uguaglianza venga perseguita perché necessaria
all’equilibrio sociale.
La
cittadinanza dovrebbe avere un significato flessibile, adatto alle condizioni
di movimento rapido e massiccio di persone che per gli interessi più diversi,
economici e sociali, si spostano repentinamente anche nello stesso Stato. I
governanti dovrebbero essere capaci di gestire questi movimenti con prospettive
a lungo termine, fissando criteri rigidi quando non vengano rispettati i
codici, ma assumendo decisioni che facilitino l’inclusione e lo scambio di
benefici reciproci per i molti che cercano condizioni di uguaglianza. Gli
amanti del concetto di Nazione potrebbero vantare il loro senso di generosità e
lungimiranza nei confronti di persone ospiti del territorio italiano nel corso
dei secoli che hanno finalmente raggiunto un equilibrio sociale e sarebbero in
grado anche di insegnare ad altri come fare per sentirsi “cittadini” italiani.
E
così la parola “cittadinanza” viene anche utilizzata di volta in volta come un
indicatore delle condizioni di vita dei cittadini o come identità sociale e politica,
finendo per avere anche significato “etico” per chi si spinge oltre il confine
del razzismo.
Ma
la cittadinanza si esercita comunque, nelle attività quotidiane, nei problemi
di sempre, nella ricerca di un modo di stare insieme nel modo meno peggiore
possibile.