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martedì 9 maggio 2017

Se riflettessimo.

C’è una relazione obbligata tra immigrato e lavoro. L’emigrante – tutti, noi italiani siamo specialisti in emigrazione – si giustifica davanti al “tribunale” della comunità ospite sostenendo che il motivo del suo viaggio è il lavoro. Nel punto di arrivo del suo viaggio si trasforma in forza-lavoro, in corpo-lavoro e così verrà trattato. Secondo la Bossi-Fini un immigrato può restare in Italia solo se lavora. Allo scadere del contratto, se non rinnoverà il contratto verrà messo alla porta. Tanto per il Paese di partenza che per quello di arrivo l’emigrante deve lavorare. Questa è la condizione che giustifica la sua assenza-presenza. Non potrà avere accesso a qualsiasi settore, non verrà preso in considerazione il suo grado di istruzione né le capacità professionali. Verrà inserito automaticamente nel livello più basso e la sua carriera finirà lì. Questo perché la qualifica lavorativa dell’immigrato corrisponde ad una definizione sociale. Non è il lavoro, la cultura, la lingua la religione introdotta dallo straniero che disturba, è “l’ordine nazionale” che ne soffre. Si intacca l’integrità, la purezza o la perfezione “mitica” e la sua logica. Se un immigrato compie un reato la colpa è duplice: non è solo delinquente, ma è anche delinquente immigrato. Lavoro da immigrato, migrante, emigrante.