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giovedì 21 marzo 2024

Che favola...

 La favola delle api.

Leggere quel poco che si può porta ad imbattersi in racconti a volte paradossali. Ma questa favola, scritta da Bernard de Mandeville nel 1705, è una delle iperboli più illuminanti (anche perché scritta in pieno Illuminismo) sulla società umana.

La riporto in sintesi, con la tipica scrittura ricercata del tempo.

Narra la favola di un alveare umano, dove tutto procedeva nel modo più felice, perché “i vizi dei particolari contribuivano al benessere pubblico”. Dacchè la virtù, istruita da politici accorti, aveva imparato mille astuzie e s’era legata in amicizia col vizio, anche i più scellerati individui erano in grado di fare qualcosa per il vantaggio comune. Infatti l’armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni direttamente opposti. Così, i membri sella società, seguendo vie assolutamente contrarie, s’aiutavano come per dispetto. La temperanza e la sobrietà degli uni facilitava l’ubriachezza e la ghiottoneria degli altri; l’avarizia era schiava del nobile difetto della prodigalità; il lusso fastoso occupava di milioni di poveri, e la vanità, questa passione così detestata, ne occupava un maggior numero ancora. Anche l’invidia e l’amor proprio, ministri dell’industria, facevano fiorir le arti e i commerci. Così, il vizio producendo l’astuzia, e questa unendosi all’industria, l’alveare abbondava di tutte le comodità della vita.

Ma un malaugurato giorno, gli abitanti si proposero di bandire il vizio e di diventare onesti. Immediatamente, i prezzi diminuirono; i tribunali si spopolarono; le prigioni furono vuotate. Una persona sola bastava a far quello che prima ne richiedeva tre. I magistrati non si facevano più corrompere. La nobiltà si disfaceva dei suoi cavalli e del suo lusso. Gli ecclesiastici adempivano da sé agli uffici divini ed aiutavano il prossimo. Per conseguenza, tutti quelli che vivevano del lusso altrui fecero fallimento: le belle arti furono abbandonate, le industrie e i mestieri negletti; i commerci languirono. A poco a poco nell’alveare, un tempo fiorente, si fece il deserto; e scarso di abitanti e di mezzi, esso non fu nemmeno più in grado di difendersi dalle aggressioni dei suoi nemici.

Morale della favola: “il vizio è altrettanto necessario in uno stato fiorente, quanto la fame per obbligarci a mangiare”, e che “la virtù sola non può rendere una nazione celebre e gloriosa”. Queste morali sono dell’autore, chiaro.

Stimolo polemico eccezionale, non c’è che dire. Io ci vedo una mistura velenosa tra pubbliche virtù e vizi privati che risulta facile rapportare, sia pure con le dovute precisazioni, alla società moderna.

Buone considerazioni a tutti.