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Politica. Meridionalismo. Blues.

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mercoledì 27 dicembre 2017

Linus, Odb e altri decenni.



Ho letto Linus con voracità. L’età mi consentiva di trasgredire metodicamente la routine scolastica e leggevo fumetti. Ma quelli di Linus. Anche le frasi di OdB, in qualche punto delle pagine sempre troppo fragili per non strapparsi, mi hanno segnato. Sarà stata la tecnica di allocazione delle brevi teorie lancinanti e definitive, ma ne rimanevo affascinato e ne conservo ancora traccia.
OdB mi ha sempre stupito. Riusciva sempre a stupire, forse perché non finiva mai di stupirsi lui per primo. Possedeva antenne sensibili capaci di intercettare prima di altri quelle che sarebbero diventate “tendenze”. Coglieva il genio in personaggi che sembravano solo un tantino strambi, e si invaghiva di certe idee bislacche che si rivelavano puntualmente molto interessanti.
Dal ’77 «Linus» divenne un catalizzatore di menti pensanti, provenienti da generazioni diverse, che avevano in comune una non sopita curiosità per il nuovo. Parlava di politica in modo laterale, descriveva il mood “trasversale del desiderante” di quella generazione: nei fatti prendeva posizione, ma parlava di linguaggio; proponeva storie che nascevano con urgenza nell’humus ribollente della controcultura; metteva insieme alto e basso. Il linguaggio, potente, attraverso cui proponeva queste storie ai lettori era quello dei fumetti.
Mitica la conversazione sul fumetto tra Oreste del Buono, Elio Vittorini e Umberto Eco. Era stata pubblicata sul primo numero, che letteralmente presentò gran parte di quella neolingua che imporrà a un vasto pubblico strisce a fumetti americane surreali e imprevedibili: Peanuts ma anche L’il Abner, Pogo…
La satira del «Linus» di OdB era più di costume che politica, e affidata agli autori di fumetti. Non era solo paziente, colto, informato. Era anche un po’ pazzerello, un tipo bizzoso che quando gli giravano era meglio non stargli tanto intorno. Della redazione apprezzava molto il fatto che sapeva trasformarsi, quando ce n’era bisogno, in una sorta di rassicurante scudo umano nei confronti del mondo fatto di petulanti questuanti, di giovani autori misconosciuti ma già dotati di potente super-io. Spesso, infatti, colto alla sprovvista, specie se in missione in qualche altrove per conto di dio, non sapeva dire di no, per un sacco di umanissime ragioni…
Lui si definiva bidello della scolaresca linusiana.
Ve la propongo, la conversazione. Si rinasce, fuori dal contesto attuale, popolato di gnomi ansiosi e presuntuosi.
Eco: Oggi stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se apparentemente fri­vola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com'è che hai conosciuto Charlie Brown?
Vittorini: Io mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occu­pavo anche ai tempi di “Politecni­co” e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti ame­ricani parlandone non soltanto sot­to il profilo sociologico, come suc­cede di solito, ma anche sotto il profilo storico
Eco: Di che cosa avete parlato a quel­l'epoca?
Del Buono: Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.
Vittorini: Sì, avevamo anche cercato di ser­virci dei fumetti come mezzo di di­vulgazione letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del resto uno “spirito di fumetto” c'era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il Politecnico dove poi c'era una appendice interamente dedicata ai fumetti: Trevisani vi curò la pubbli­cazione di Li'l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi su Poli­tecnico ne riportammo due o tre.
Eco: E Charlie Brown?
Vittorini: Charlie Brown è venuto per un ac­cidente. Io mi facevo mandare dal­l'America, da amici che ho lì, i sup­plementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non l'avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giu­sta. Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mon­dadori, nel '58-59, un album ancora di quelli formato “forze di libera­zione". Incuriosito, me lo sono fat­to dare e ricordo che passai il resto del pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre.
Eco: Tu che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?
Vittorini: Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza anda­re nel difficile. io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse molto più ampio e secondo me molto più profondo.
Eco: Allora secondo te è più artista Schulz?
Vlttorini: Certamente. Salinger, resta, se vo­gliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una società, ri­mane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto “hot “, o meglio “hard-boiled”, soddisfa meglio cer­te esigenze di impegno). Salinger è un “patetico” che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il “ signifiant”, il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo ma­turo, un po' come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso l'età della pietra.
Eco: E tu Del Buono come vedi Charlie Brown?
Del Buono: Io sono un convertito a Charlie Brown, All'inizio non mi piaceva affatto, Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avven­turoso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a un certo pun­to è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono as­solutamente realistici. È avvenuta addirittura un'identificazione: Char­lie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua, Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto co­me diagnosi, prognosi ed esorci­smo.
Vittorini: E qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quel­lo che dice Del Buono: lui denun­cia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con le strips di Char­lie Brown. Il primo contatto in ef­fetti non soddisfa; una singola strip di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però, nella quan­tità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips si succedono costituite, un po' co­me le frasi musicali, di invariabili e di variabili, di tre invariabili e due variabili l'una, di quattro invariabili e una variabile l'altra, si ha allora un "continuo” che approfondisce non solo numericamente il signifi­cato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.
Eco: Questo mi pare importante perché molte volte quando si cerca di spie­gare a qualcuno, che non è abitua­to ai fumetti di Charlie Brown, che essi sono importanti, questo qual­cuno tende a giudicarli così come giudicherebbe una pagina di ro­manzo, una pagina letteraria. Leg­ge un brano isolato, due o tre pa­gine e non vi trova effettivamente nulla, Per giudicare i fumetti per quello che valgono realmente, bi­sogna tener conto proprio della lo­ro tecnica di distribuzione e di consumo, così come certe epiche po­polari di un tempo trovavano il loro sviluppo proprio attraverso il ripe­tersi delle avventure. È quindi im­possibile giudicare il fumetto con i criteri che si applicano alla lette­ratura normale. Questo non signi­fica che il fumetto non possa esse­re un prodotto letterario: solo che esso va giudicato in un “sistema” di lettura (e quindi anche di crea­zione) diverso.
Vittorini: Va giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una specie di “scatto di totalità”. Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L'unità espressi­va, l'abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non ab­biamo che la vignetta, una vecchis­sima conoscenza giornalistica, co­stituita da una figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un corpo solo quel­lo che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplica­zione della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l'elemento della successione tem­porale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti, uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole abbia­no la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto l'insieme riducendo le figure a non ave­re che dei compiti stereotipi, di de­scrizione, di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pitto­grafici. È questo terzo elemento che fa della strip un'unità espressi­va, perché rende puramente para­digmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all'inter­no del proprio decorso) l'elabora­zione del significato. Ma la strip non esprime che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e anche se in se stessa può riuscire prege­vole lo riuscirà solo a livello di mas­sima, di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch'essa rivela non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è pre­caria, può essere banalissima o co­munque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i rappor­ti, gli oggetti in essa trattati ritor­nino in altre strips un certo numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici volte, accumulando momento su momen­to e aspetto su aspetto, perché noi si possa entrare nel merito qualita­tivo del fumetto. A furia di quantità è avvenuto quello che ho chiamato "scatto di totalità", cioè si è for­mato un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema, dandoci il sen­so di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce...
Eco: E qui viene fuori allora una conclu­sione abbastanza strana: mentre abitualmente i fumetti sono delle produzioni narrative da consumare subito come si beve un caffè, gior­no per giorno e da buttare poi via, nella misura invece in cui sono riu­sciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto. Le storie di Charlie Brown sono nate per essere consumate ogni matti­no: proprio perché sono importanti vanno invece conservate e rilette dall'inizio. Solo cosi acquistano senso.
Del Buono: Mentre, a esempio, i fumetti di tipo Gordon, che per me, da ragazzo, erano stati educativi o diseducativi, in qualche modo formativi insom­ma, visti tutt'insieme nella riedizio­ne odierna entrano in crisi, proprio per la ripetizione. La ripetizione di dati schemi: Gordon e il cattivo im­peratore Ming, Gordon e le belle regine colorate che lo vogliono sposare, Gordon e il traditore della sua generosità, Gordon e i vari dra­ghi sdentati, eccetera, è una ripe­tizione che denuncia l'assenza di altre invenzioni più valide. È uno scacco, contrabbandato nell'ansito breve delle puntate, messo in luce dalla raccolta delle strisce, una mo­notonia casuale, non una ripresa si­gnificativa.
Eco: La forza di Charlie Brown è che ri­pete sempre con ostinazione, ma con un senso del ritmo, qualche elemento fondamentale. Come cer­to jazz ripete con ostinazione una certa frase musicale. Potremo quindi concludere dicen­do: il buon fumetto è quello in cui la ripetizione ha un significato e accresce la ricchezza della storia, il cattivo fumetto è quello in cui la ripetizione annoia e dimostra povertà d'invenzione.

giovedì 16 novembre 2017

Il politico perfetto.



Non ci sono dubbi: siamo guidati da un piccolo esercito di politici ad una dimensione.
Indifferenti alla filosofia, menefreghisti per quanto riguarda le ricadute sociali delle iniziative politiche.
Il politico perfetto, figura mitologica a cui questa squadra si rifà, si occupa esclusivamente delle tecniche che possono aiutarlo a risolvere un problema di notorietà e consenso, quando esse sono in calo. Non si chiede mai in quale tipo di società è costretto a operare. Non si interroga mai sugli errori che commette, se sono frutto del male che è nella natura umana oppure del male che scaturisce dalla organizzazione di una determinata società (si chiama cecità ideologica o autoimmunosoppressione delle capacità autocritica).
Ha pochi hobbies. Flemmatico e vanitoso, si permette di criticare anche i grandi predecessori. Come dire che il politico perfetto, nella sua sterminata presunzione, non riconosce neanche i suoi padri. A tratti dà l’impressione di essere imbecille, di pensare solo al suo personale interesse.
Il politico perfetto, da personaggio ad una dimensione, è più facile da memorizzare rispetto ad altri tipi più stratificati. Tenace e indolente, arido e fanatico, il politico perfetto unisce in se tutti i vizi e le virtù dell’italiano, del figlio della Costituzione partigiana da revisionare. Un uomo che crede soltanto ed esclusivamente in quello che vede, sente, tocca, fiuta, gusta. Non per niente è un esperto di comunicazione. Il positivismo è, per il politico perfetto, totale e totalizzante. Del superamento della realtà che lo circonda non sa che farsene, come della ricerca metafisica. La società come è gli va benissimo e non lo sfiora per nulla il sospetto che potrebbe andare meglio, questa promessa serve solo a fini elettorali.
Questo tipo di società per lui è il migliore dei mondi possibili e le opposizioni non sono che effimere ed inconcepibili barriere concepite dall’ordine costituito. C’è in lui un buon livello di disprezzo per i poveri, tanto che decide di occuparsi della sempre ben frequentata classe agiata. Ed è solo all’inizio.

mercoledì 25 ottobre 2017

Io tifo.



Sebbene sia tifoso di calcio, avverto dalle cronache sempre più dure e crude che è in atto una evoluzione del comportamento della tifoseria organizzata nelle medie e grandi città.
Così poco ospitali, le curve, da rendere difficile partecipare come spettatori paganti a partite di campionato di calcio attese e potenzialmente grandi spettacoli tecnici e atletici.
Perché l’estremismo politico si impossessa dei grandi spazi dei campi di calcio, se non per sfruttare l’eco enorme data dalla popolarità e dal numero degli utenti?
Identità e rappresentazione sociale sembrano copioni già scritti e replicati con costanza ossessiva: canti offensivi contro l’avversario, offese razziste, esibizione di forza, violenza.
I meccanismi legati alla legittimazione e alla capacità di aggregare consenso all’interno delle diverse curve del territorio nazionale sono consolidati e dimostrano che è avvenuta la presa di possesso dell’ambito calcistico reale, quello degli stadi. Pochissimo può servire la retorica del bel calcio e della funzione educativa dello sport: questi valori, presenti ma poco evidenziati, sono ignorati dall’informazione, come in gran parte della realtà esterna agli stadi del calcio.
Cosa rispondono gli ultras delle grandi squadre all’accusa di teppismo, razzismo e estremismo politico? Ciò che si legge pare un disco rotto: le azioni violente sarebbero meno gravi di quello che sembra. L’idea di fondo è che i mass media, distorcendo e manipolando la realtà, avrebbero generato ed alimentato la creazione di stereotipi sul tifoso-violento-teppista e rafforzato la criminalizzazione diffusa e generalizzata nei suoi confronti, conducendo l’opinione pubblica verso una enfatizzazione del fenomeno in questione.
In questi termini la rappresentazione dell’Ultras violento e teppista risulta essere conseguenza della costruzione sociale che ne viene fatta di volta in volta, episodio dopo episodio.
Il calcio risente delle influenze politiche, economiche e sociali. Deriva da qui, forse, la composizione di una tifoseria con leadership politica, con ideologismi di posizione estremista. Anche gli Ultras si sono canalizzati verso un ideale politico.
Il tifoso vero, però, è altro: soffre, vince con la squadra, perde con la stessa squadra. La parte deviata degli Ultras sta costringendo le persone normali ad assistere da lontano ad uno spettacolo bellissimo.

domenica 15 ottobre 2017

Storie di creazione di consenso.



L’inizio dell’impegno in ambito pubblico in grandi partiti è per forza di cose da timorati. Piccole riunioni, frasi dette a metà, scelta del leader momentaneo, scelta della corrente più forte da seguire.
Mano a mano che il tempo passa e si dimostra di essere affidabili, persone si affiancano, si toccano temi e argomenti più impegnativi, si prova a ricoprire ruoli più consoni al titolo di studio che si possiede o all’attività lavorativa che si svolge. L’organizzazione politica che ospita dà spazio e lascia fare.
Normalmente all’inizio si appoggiano esigenze di fasce di popolazione in difficoltà: in fondo il succo della partecipazione alla vita di società deriva da nobili motivazioni. Giustifica l’impegno e responsabilizza.
Se tutto prosegue secondo piani più o meno prestabiliti – le variabili sono innumerevoli – alla funzione di attivista subentra quella di coordinamento di un gruppo più o meno numeroso, che arriva a essere interessante politicamente. Ciò deriva da indubbie qualità personali dei componenti, da radicate convinzioni motivazionali, da un opportuno carattere coinvolgente e non prevaricante di chi coordina.
Maturano i primi obbiettivi. Cosa se ne fanno di questa forza i gruppi così costituiti? Dove concentrano la loro azione di impatto sociale, di esercizio della coesione delle idee e delle persone coinvolte? Qui si arriva ad un bivio decisivo per le sorti del gruppo così faticosamente costituito: continuare, migliorando le conoscenze e le attitudini fino a farle diventare sistema operativo specializzato o cambiare target di riferimento e tentare la scalata sociale verso traguardi sostanzialmente diversi da quelli di partenza?
Qui si capisce chiaramente, si delinea, finalmente, il progetto iniziale del gruppo: quali fossero le reali intenzioni di persone che, partendo dalla condivisione di problematiche sociali urgenti, enormi e non sostituibili con altro, attraccano in porti esclusivi, poco numerosi ma con disponibilità economiche e di prestigio ingenti, non paragonabili a quelle offerte dal punto di partenza. Un doping del futuro consenso, che permetterà di chiedere comunque sostegno alle classi in difficoltà e che si avvarrà del prestigio di ambiti ristretti e molto, molto esclusivi.
Sono le ambizioni di questo tipo, per nulla legittime, che sfasciano irrimediabilmente la capacità della politica di risolvere i problemi partendo dal basso. L’ascensore sociale a gettoni.