Sono contento di
avere vissuto il 2018. Lo dico come se fosse uno slogan, perché questo anno è
stato in realtà molto impegnativo, anche doloroso, con eventi che però hanno
mitigato verso la fine le tristezze che lo hanno caratterizzato.
Gli slogan mi
perseguitano. Credo che anche voi siate perseguitati senza pause (sempre che alcuni
di voi non li creino per i motivi più diversi) da questo modo spiccio e
risolutivo di definire e circoscrivere i problemi e giustificare appartenenze
complicate, politiche e sociali in genere. Almeno quelli pubblicitari sono
allettanti!
Gli slogan politici
più ripetuti in questi giorni sono, per esempio e in ordine di “maggioranza”:
1)
La manovra distribuisce 20 miliardi agli italiani;
2)
La manovra impoverisce gli italiani.
A distanza, si
prosegue con:
3)
Non si mettono le mani in tasca degli italiani;
4)
I pensionati, i giovani, i dipendenti saranno colpiti
da una crisi senza precedenti.
Posso dirmi
stufo di ribattere senza spiegare, di leggere senza poter capire, di tifare
senza ragione tutta una serie di argomenti? Si che posso, ma nella solitudine
assoluta, nello sfottò banale, nella serietà perduta dei social.
E con piacere e
soddisfazione, quando mi imbatto in post in cui si cerca di spiegare la propria
posizione, mi soffermo e apprezzo l’impegno. Adoro il cazzeggio, la metafora,
lo sfottò, la battuta.
Tornando al tema
di questo post, il linguaggio e quindi anche lo slogan sono frutto, ora, di una
attività di pensiero debole. Nella tendenza, tutta italiana, della semplificazione
del pensiero e anche del lessico, ci sono sempre poche espressioni, allusive o
patetizzanti e si vogliono controllare le emozioni, proprie e altrui, cercando
di essere più tranquillizzanti o allarmanti.
Usando un modo
si esprimersi povero, fatto di poche parole, senza articolazioni, contraddistinto
da un alone indefinito che costringe alla ripetizione di concetti scontati e
non verificati, all’utilizzo smodato di metafore e orientato a un valore espressivo
totalizzante e definitivo, si rifiuta la complessità della società.
Si cerca l’esasperazione
dei toni per coprire il vuoto crescente, l’assenza di responsabilità delle persone
che si autoeleggono giudici, sempre più lontane dall’essere collettività, accompagnati
soltanto dal pensiero individuale. Le parole diventano retoriche, senza
capacità di movimento e prive di significato, senza intelligenza e perdendo
credibilità.
Slogan e frasi
fatte hanno fatto perdere al linguaggio la sua capacità interpretativa. Non si
spiega più, si tifa. La compressione linguistica che ha caratterizzato gli
ultimi venti anni, presente a mani basse nei social, porta a un continuo “botta
e risposta” inutile. Privo di eleganza e senza cura né garbo, il linguaggio è piegato
a comunicazione di servizio, primitiva ed elementare. Il suo impoverimento è
frutto di un passaggio dal pensare al fare, da strumento del pensiero critico
si è trasformato in arnese del fare.
Ma le parole
implicano ascolto, ormai in caduta verticale, e fiducia; per capirsi e restituire
al linguaggio la sua identità bisognerà sostenere i loro infiniti significati e
riscoprirlo come strumento di dialogo e di conoscenza.
Buon Anno a
tutti, spero calorosamente che almeno questo argomento si condivida.