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venerdì 25 agosto 2017

La protesta e le etnie.

Chi suggerisce di protestare con forza per i disoccupati italiani e per le altre emergenze nazionali che ci impegnano in una vita di qualità non dignitosa invece di denunciare gli sgomberi che riguardano i rifugiati, è in una posizione di attesa. Attesa inutile e infruttuosa, che chiede silenzio su argomenti che riguardano stranieri capitati in Italia per volere di altri, si dice. Protestare costa presenza fisica, organizzazione e scelta dei responsabili contro cui indirizzare forme di protesta che devono essere sempre lecite e democratiche. Distribuiti in tutti i comparti dello Stato, i destinatari sono abili a scaricare responsabilità e rendere muta l’insoddisfazione che si cova in molte parti della società. “Questo è il migliore dei mondi possibili”, ci insinuava nella mente quel genio politico di Andreotti. Una frase che ha avuto scarso effetto calmante negli anni in cui è stata pronunciata e che ora ci fa sorridere amaramente. Ora nessuno trova il coraggio cinico di dirlo, perché non porterebbe vantaggi elettorali e richiamerebbe tempi in cui erano ancora presenti classi sociali definite. Oltre il naso delle immediate esigenze quotidiane, c’è chi protesta e contesta per il modo monocorde con cui lo Stato affronta tutti i problemi sociali. Questo va sottolineato. Da una parte “tavoli” estenuanti e infiniti, dall’altra proteste inutili di piazza o nelle aziende. Mancano, cioè, le parti attive e realmente coinvolte della società, impegnate nelle battaglie quotidiane in difesa individuale di diritti sempre più rarefatti e scadenti. Niente coscienza collettiva, ce ne rendiamo conto ogni giorno di più. Quando ci sono state proteste di piazza – e quante ce ne sono ancora – per la tutela de lavoro a rischio o perso, raramente la risposta di chi si occupa di ordine pubblico è stata diversa dal modo di operare in Piazza Indipendenza a Roma. Non credo che si debbano fare elenchi, lo ricordiamo. Quindi, rivendicare il diritto di poter generare la nascita di una coscienza collettiva, non è il male. E’ una reazione allo stato di fatto, al degrado generalizzato che assilla la parti deboli della società e che non sfiora affatto – nè come partecipazione emotiva, né come forma di condivisione dei problemi, chi non è stato lambito dalle crisi in atto.