Ho letto Linus
con voracità. L’età mi consentiva di trasgredire metodicamente la routine
scolastica e leggevo fumetti. Ma quelli di Linus. Anche le frasi di OdB, in qualche
punto delle pagine sempre troppo fragili per non strapparsi, mi hanno segnato.
Sarà stata la tecnica di allocazione delle brevi teorie lancinanti e
definitive, ma ne rimanevo affascinato e ne conservo ancora traccia.
OdB mi ha sempre
stupito. Riusciva sempre a stupire, forse perché non finiva mai di stupirsi lui
per primo. Possedeva antenne sensibili capaci di intercettare prima di altri
quelle che sarebbero diventate “tendenze”. Coglieva il genio in personaggi che sembravano
solo un tantino strambi, e si invaghiva di certe idee bislacche che si rivelavano
puntualmente molto interessanti.
Dal ’77 «Linus»
divenne un catalizzatore di menti pensanti, provenienti da generazioni diverse,
che avevano in comune una non sopita curiosità per il nuovo. Parlava di politica
in modo laterale, descriveva il mood “trasversale del desiderante” di quella
generazione: nei fatti prendeva posizione, ma parlava di linguaggio; proponeva storie
che nascevano con urgenza nell’humus ribollente della controcultura; metteva insieme
alto e basso. Il linguaggio, potente, attraverso cui proponeva queste storie ai
lettori era quello dei fumetti.
Mitica la
conversazione sul fumetto tra Oreste del Buono, Elio Vittorini e Umberto Eco.
Era stata pubblicata sul primo numero, che letteralmente presentò gran parte di
quella neolingua che imporrà a un vasto pubblico strisce a fumetti americane
surreali e imprevedibili: Peanuts ma anche L’il Abner, Pogo…
La satira del
«Linus» di OdB era più di costume che politica, e affidata agli autori di
fumetti. Non era solo paziente, colto, informato. Era anche un po’ pazzerello,
un tipo bizzoso che quando gli giravano era meglio non stargli tanto intorno. Della
redazione apprezzava molto il fatto che sapeva trasformarsi, quando ce n’era
bisogno, in una sorta di rassicurante scudo umano nei confronti del mondo fatto
di petulanti questuanti, di giovani autori misconosciuti ma già dotati di potente
super-io. Spesso, infatti, colto alla sprovvista, specie se in missione in qualche
altrove per conto di dio, non sapeva dire di no, per un sacco di umanissime ragioni…
Lui si definiva
bidello della scolaresca linusiana.
Ve la propongo,
la conversazione. Si rinasce, fuori dal contesto attuale, popolato di gnomi
ansiosi e presuntuosi.
Eco: Oggi
stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se
apparentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com'è che hai
conosciuto Charlie Brown?
Vittorini: Io
mi sono sempre interessato di fumetti da tempi lontanissimi, da quando ero
ragazzo. Me ne occupavo anche ai tempi di “Politecnico” e ricordo che una
volta ho pregato il nostro amico Del Buono di intervenire su certi fumetti americani
parlandone non soltanto sotto il profilo sociologico, come succede di solito,
ma anche sotto il profilo storico
Eco: Di
che cosa avete parlato a quell'epoca?
Del
Buono: Un po' di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi
Sposi.
Vittorini: Sì,
avevamo anche cercato di servirci dei fumetti come mezzo di divulgazione
letteraria ma si trattava più che altro di un divertimento per noi stessi. Del
resto uno “spirito di fumetto” c'era anche nel tipo di impaginazione che usavo
per il Politecnico dove poi c'era una appendice interamente dedicata ai
fumetti: Trevisani vi curò la pubblicazione di Li'l Abner e di Barnaby, il
ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante
la guerra e noi su Politecnico ne riportammo due o tre.
Eco: E
Charlie Brown?
Vittorini: Charlie
Brown è venuto per un accidente. Io mi facevo mandare dall'America, da amici
che ho lì, i supplementi domenicali dove ci sono i fumetti, però questo non
l'avevo notato perché quelle persone non mi mandavano mai la pagina giusta.
Finalmente una volta ho visto in mano a una ragazza della Mondadori, nel
'58-59, un album ancora di quelli formato “forze di liberazione".
Incuriosito, me lo sono fatto dare e ricordo che passai il resto del
pomeriggio mondadoriano a guardarmeli. Da allora li ho cercati sempre.
Eco: Tu
che ti sei occupato tra i primi in Italia della tradizione narrativa americana,
come collochi Charlie Brown nella letteratura americana?
Vittorini: Bisognerebbe
prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz, ma comunque, senza
andare nel difficile. io lo avvicinerei a Salinger, però con un interesse
molto più ampio e secondo me molto più profondo.
Eco: Allora
secondo te è più artista Schulz?
Vlttorini: Certamente.
Salinger, resta, se vogliamo, poeta: però non riesce ad essere il poeta di una
società, rimane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di
vista Ring Lardner, l'effettivo creatore del racconto “hot “, o meglio
“hard-boiled”, soddisfa meglio certe esigenze di impegno). Salinger è un “patetico”
che evade nel mondo dell'infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del
mondo degli adulti, della maturità come lo è per Schulz dove l'infanzia è il “
signifiant”, il veicolo di questo mondo completo che è l'uomo maturo, un po'
come Johnny Hart (quello di B.C.) che rappresenta il mondo moderno attraverso
l'età della pietra.
Eco: E
tu Del Buono come vedi Charlie Brown?
Del
Buono: Io sono un convertito a Charlie Brown, All'inizio non mi
piaceva affatto, Intanto il mio interesse per i fumetti era diretto al genere
avventuroso e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano,
leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico senza trovarla. Però a
un certo punto è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i
fumetti di Charlie Brown sono assolutamente realistici. È avvenuta addirittura
un'identificazione: Charlie Brown sono io. Da questo punto ho cominciato a
capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia continua, Ed ecco
finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto come diagnosi, prognosi ed
esorcismo.
Vittorini: E
qui vorrei fare un'osservazione di carattere strutturale rispetto a quello che
dice Del Buono: lui denuncia un'incomprensione rispetto ai primi contatti con
le strips di Charlie Brown. Il primo contatto in effetti non soddisfa; una
singola strip di Charlie Brown non dice niente, è una barzelletta; però, nella
quantità, quando interviene anche la ripetizione di certi motivi, e le strips
si succedono costituite, un po' come le frasi musicali, di invariabili e di
variabili, di tre invariabili e due variabili l'una, di quattro invariabili e
una variabile l'altra, si ha allora un "continuo” che approfondisce non
solo numericamente il significato iniziale e lo snoda, lo articola, fino a
farlo coincidere con tutti gli aspetti di una realtà data.
Eco: Questo
mi pare importante perché molte volte quando si cerca di spiegare a qualcuno,
che non è abituato ai fumetti di Charlie Brown, che essi sono importanti,
questo qualcuno tende a giudicarli così come giudicherebbe una pagina di romanzo,
una pagina letteraria. Legge un brano isolato, due o tre pagine e non vi
trova effettivamente nulla, Per giudicare i fumetti per quello che valgono realmente,
bisogna tener conto proprio della loro tecnica di distribuzione e di consumo,
così come certe epiche popolari di un tempo trovavano il loro sviluppo proprio
attraverso il ripetersi delle avventure. È quindi impossibile giudicare il
fumetto con i criteri che si applicano alla letteratura normale. Questo non
significa che il fumetto non possa essere un prodotto letterario: solo che
esso va giudicato in un “sistema” di lettura (e quindi anche di creazione)
diverso.
Vittorini: Va
giudicato a partire da un certo punto: cioè da un punto in cui ci accorgiamo
che è esplosa, per cosi dire, una globalità; un punto in cui è avvenuto una
specie di “scatto di totalità”. Ma vorrei cercare di spiegarmi meglio. L'unità
espressiva, l'abbiamo detto, è la strip, la sequenza. Prima della strip non abbiamo
che la vignetta, una vecchissima conoscenza giornalistica, costituita da una
figura e una battuta che si completano a vicenda e che esauriscono in un corpo
solo quello che hanno da dire. Con la strip abbiamo non solo una moltiplicazione
della figura e della battuta, una serie di quattro cinque figure e di
altrettante battute, ma abbiamo anche un elemento del tutto nuovo, l'elemento
della successione temporale, il quale si manifesta in due ordini sovrapposti,
uno analogico per le figure e uno logico per le parole, benché poi le parole
abbiano la prevalenza e investano della loro logicità letteraria tutto
l'insieme riducendo le figure a non avere che dei compiti stereotipi, di descrizione,
di caratterizzazione, ecc. ecc. come dei semplici segni pittografici. È questo
terzo elemento che fa della strip un'unità espressiva, perché rende puramente
paradigmatico il valore di ogni vignetta a sé, e assume in proprio (all'interno
del proprio decorso) l'elaborazione del significato. Ma la strip non esprime
che un frammento di mondo, un aspetto di personaggio, un momento di rapporto e
anche se in se stessa può riuscire pregevole lo riuscirà solo a livello di massima,
di illuminazione, di appunto, di episodio, di aneddoto. La qualità ch'essa rivela
non va oltre i limiti della sua durata, è minima, è precaria, può essere
banalissima o comunque non più che divertente, e occorre che i personaggi, i
rapporti, gli oggetti in essa trattati ritornino in altre strips un certo
numero di volte, sei volte, sette volte, nove volte, anche quindici, sedici
volte, accumulando momento su momento e aspetto su aspetto, perché noi si
possa entrare nel merito qualitativo del fumetto. A furia di quantità è
avvenuto quello che ho chiamato "scatto di totalità", cioè si è formato
un significato secondo, che subito si riflette su ogni singola strip, anteriore
o successiva, e la carica di importanza, la fa essere parte di un sistema,
dandoci il senso di avere a che fare con tutto un mondo. Quando è Charlie
Brown o B.C.; quando è un buon fumetto, si capisce...
Eco: E
qui viene fuori allora una conclusione abbastanza strana: mentre abitualmente
i fumetti sono delle produzioni narrative da consumare subito come si beve un
caffè, giorno per giorno e da buttare poi via, nella misura invece in cui sono
riusciti, essi sono opera importante e sono qualcosa che va riletto. Le storie
di Charlie Brown sono nate per essere consumate ogni mattino: proprio perché
sono importanti vanno invece conservate e rilette dall'inizio. Solo cosi
acquistano senso.
Del
Buono: Mentre, a esempio, i fumetti di tipo Gordon, che per me,
da ragazzo, erano stati educativi o diseducativi, in qualche modo formativi
insomma, visti tutt'insieme nella riedizione odierna entrano in crisi,
proprio per la ripetizione. La ripetizione di dati schemi: Gordon e il cattivo
imperatore Ming, Gordon e le belle regine colorate che lo vogliono sposare,
Gordon e il traditore della sua generosità, Gordon e i vari draghi sdentati,
eccetera, è una ripetizione che denuncia l'assenza di altre invenzioni più
valide. È uno scacco, contrabbandato nell'ansito breve delle puntate, messo in
luce dalla raccolta delle strisce, una monotonia casuale, non una ripresa significativa.
Eco: La forza di
Charlie Brown è che ripete sempre con ostinazione, ma con un senso del ritmo,
qualche elemento fondamentale. Come certo jazz ripete con ostinazione una
certa frase musicale. Potremo quindi concludere dicendo: il buon fumetto è
quello in cui la ripetizione ha un significato e accresce la ricchezza della
storia, il cattivo fumetto è quello in cui la ripetizione annoia e dimostra
povertà d'invenzione.
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