C’è una classificazione attendibile, di Giovanni
Sartori, che mette chiarezza sui ruoli che ognuno si ritaglia quando si muove
in politica.
- gli INATTIVI: coloro che al massimo leggono di politica e sono disposti a firmare una petizione se glielo si chiede;
- i CONFORMISTI: coloro che si impegnano soltanto in forme convenzionali di partecipazione;
- i RIFORMISTI: quelli che utilizzano le forme di partecipazione convenzionali, ma il cui repertorio politico comprende anche forme di protesta, boicottaggi e dimostrazioni;
- gli ATTIVISTI: coloro che si spingono fino ad abbracciare le forme non legali o illegali di azione politica;
- i CONTESTATORI: sono simili ai riformisti e agli attivisti per ciò che riguarda le forme di protesta, ma differiscono da questi due gruppi perché non prendono parte alle azioni convenzionali di attività politica.
Ritrovarsi
in una di queste categorie non significa essere migliori o peggiori di chi si
aspetta dalla politica, senza fare altro che votare, una risposta alle domande
urgenti che pone. Però mette a posto gli incauti che si autodefiniscono
impropriamente, per esempio, attivisti.
In nome di
chi e di cosa? E fino a che punto si ritiene di essere portatori di acqua o
parte attiva di forme di partecipazione in cui decidono dirigenti lontani dalla
base? I social sono limitativi della partecipazione?
Per quanto
mi riguarda, si. E dato che il consenso, l’adesione a progetti sociali come i
partiti e i movimenti hanno a che fare con l’affettività, l’amicizia, il
gruppo, gli interessi personali, la rappresentanza va a farsi benedire, come
sempre in Italia. Attivisti, eh?
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