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mercoledì 5 febbraio 2020

Tempo di Sanremo. Per compensare mi serve James Brown.


Ah, ma non è un controsenso. Mentre si cerca l’eccesso (solo mediatico) in un Festival della Musica Italiana comunque necessario per rendere varia la programmazione televisiva e per ossigenare l’industria della musica pop, io mi catapulto nella musica “martelli e ferraglia” mischiati in modo fantasticamente sincopato da questo matto del Funky, del Soul e del Blues.
Appena esploso il rock&roll, nella metà degli anni cinquanta, James Brown invade il palcoscenico: cantante, tastierista, compositore, innovatore, promotore e produttore. Il Blues con lui evolve anche socialmente.
Incursioni nel gospel (all’inizio), nel blues, nel rap. Ma Brown è il simbolo della Funky Music. Davvero chi ha attraversato gli anni della soul-disco non può non ricordare la potenza ritmica della sua musica, accompagnata da esibizioni di ballo sfrenate e irresistibili.
Un dato sulla sua pignoleria nella gestione del “marchio” è dato dal numero di “multe” destinate al suo seguito: manager, segretario, public relations, maggiordomo, guardarobiera, sarta, parrucchieri, gorilla e… musicisti, certo. Tutti multati almeno una volta a concerto per motivi seri o inezie.
Un ruolo lo ebbe anche durante la rivolta razziale successiva all’omicidio di Martin Luther King, quando cercò di sedare la rivolta con un messaggio televisivo apprezzato anche dal Presidente Johnson.
Nato nel 1928 lavorò come spazzino (oggi diremmo operatore ecologico), lustra scarpe, distributore di ghiaccio e, alla fine, musicista.
Il tratto che mi interessa di più? La sua vita è interamente dedicata all’esaltazione delle virtù degli afroamericani. Accusato di sostenere Malcolm X, finì per dichiararsi non violento. Che percorso netto!
Se ci chiediamo se c’è un solo posto sulla Terra in cui non abbiano suonato “Sex Machine”, la risposta è no, non esiste.

E’ quindi impossibile non ascoltare Sex Machine, vera opera cult: inimitabile e ancora coinvolgente.

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