L’America
degli anni ’60 del secolo scorso era ancora notevolmente razzista. In quella
realtà, guidata come sempre dagli interessi economici di pochi e la lotta
quotidiana dei molti, il Blues era uno dei componenti della cultura
controcorrente. Era un modo di affrontare le difficoltà della società
multietnica; era la cultura alternativa, esotica e romantica. Era la voce di un
popolo oppresso, incompreso e rifiutato. Era anche, forse per questo, una
musica disinibita, senza le caratteristiche ipocrite che stavano dominando
quella società. Era realista ed erotica. Per molti versi anticipava gli argomenti
del movimento femminista. Era cantato dai “fuori legge”, antieroi armati solo
della loro chitarra. In quegli anni, lo stesso B.B. King, dopo aver acquistato
un appartamento in una zona di bianchi, a Memphis, confessò di non poterci
abitare perché se lo avesse fatto gli altri inquilini se ne sarebbero andati.
Il
Blues era una dichiarazione di principi fuori dal sistema, una forma di lotta
politica dei neri. Molto probabilmente tutto ciò era una percezione a cui
bisognava necessariamente affezionarsi, un ulteriore modo di affrancarsi dei
neri rispetto alla cultura musicale dei bianchi.
La
società americana, strutturata rigidamente in modo razziale, divergeva anche
sulla definizione culturale e sociale del blues: la società nera privilegiava
la discussione sull’aspetto sociale e la rilevanza contemporanea del blues; i
bianchi si concentravano soprattutto sull’aspetto estetico, storico ed artistico.
E’
il caso di notare che i rapporti di forza si fondavano, anzi, si fondano
ancora, sullo stato di bisogno, sulla necessità di emanciparsi da un lato, e
sull’apprezzamento estetico ed artistico di un’arte, dall’altro. Non è cambiato
praticamente niente, in cinquant’anni.
Vi
propongo un bluesman politico che si ascolta molto raramente, J. B. Lenoir.
Inascoltabile in Patria, anche per motivi razziali.
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