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domenica 12 agosto 2018

Il Blues, musica politica anche negli anni ‘60.


L’America degli anni ’60 del secolo scorso era ancora notevolmente razzista. In quella realtà, guidata come sempre dagli interessi economici di pochi e la lotta quotidiana dei molti, il Blues era uno dei componenti della cultura controcorrente. Era un modo di affrontare le difficoltà della società multietnica; era la cultura alternativa, esotica e romantica. Era la voce di un popolo oppresso, incompreso e rifiutato. Era anche, forse per questo, una musica disinibita, senza le caratteristiche ipocrite che stavano dominando quella società. Era realista ed erotica. Per molti versi anticipava gli argomenti del movimento femminista. Era cantato dai “fuori legge”, antieroi armati solo della loro chitarra. In quegli anni, lo stesso B.B. King, dopo aver acquistato un appartamento in una zona di bianchi, a Memphis, confessò di non poterci abitare perché se lo avesse fatto gli altri inquilini se ne sarebbero andati.
Il Blues era una dichiarazione di principi fuori dal sistema, una forma di lotta politica dei neri. Molto probabilmente tutto ciò era una percezione a cui bisognava necessariamente affezionarsi, un ulteriore modo di affrancarsi dei neri rispetto alla cultura musicale dei bianchi.
La società americana, strutturata rigidamente in modo razziale, divergeva anche sulla definizione culturale e sociale del blues: la società nera privilegiava la discussione sull’aspetto sociale e la rilevanza contemporanea del blues; i bianchi si concentravano soprattutto sull’aspetto estetico, storico ed artistico.
E’ il caso di notare che i rapporti di forza si fondavano, anzi, si fondano ancora, sullo stato di bisogno, sulla necessità di emanciparsi da un lato, e sull’apprezzamento estetico ed artistico di un’arte, dall’altro. Non è cambiato praticamente niente, in cinquant’anni.

Vi propongo un bluesman politico che si ascolta molto raramente, J. B. Lenoir. Inascoltabile in Patria, anche per motivi razziali.

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