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mercoledì 31 gennaio 2018

La partenza dal basso, il blues ci ricorda come dovrebbe essere.



Decido di tornare allo studio del blues, di gran lunga più emozionante di qualsiasi attività umana che preveda la supremazia di un essere umano su un altro, intelletuale o fisica.
Quello che ricordo dei primi anni dello studio di questo particolare modo di fare musica e contemporaneamente urlare la propria condizione di vita, è che nacque in Gambia. Li nacque qualcosa che si può definire l’inizio della lotta di classe musicata.
Lo strumento che veniva suonato era fatto con una zucca allungata essiccata fino a raggiungere la durezza della plastica. Cinque corde ricavate da una lenza da pesca, fatta chissà come, legate al palo di legno che serviva come manico dello strumento. Quattro corde si estendevano fino alla fine del palo, la quinta era legata al corpo dello strumento ed era più corta e dava i toni un po’ più alti. Il ponte era scolpito a mano che manteneva le corde, separate dalla membrana di pelle di capra che copriva il taglio effettuato sulla zucca. Nella lingua degli africani che lo portarono nel sud degli Stati Uniti si chiamava banjo.
In mano ai bianchi lo strumento diventò gradatamente come lo ricorda qualcuno di noi, se vogliamo ricordare. E perse gradatamente il ruolo e la funzione, sostituito dalla chitarra.
La prossima volta mi ricorderò di come era strutturata una canzone blues. Perché il blues è triste, ma fedele nella memoria.

John Lee Hooker, Boogie Chillen. Ma se sentiremo molti altri.

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