Decido
di tornare allo studio del blues, di gran lunga più emozionante di qualsiasi
attività umana che preveda la supremazia di un essere umano su un altro, intelletuale o fisica.
Quello
che ricordo dei primi anni dello studio di questo particolare modo di fare
musica e contemporaneamente urlare la propria condizione di vita, è che nacque
in Gambia. Li nacque qualcosa che si può definire l’inizio della lotta di
classe musicata.
Lo
strumento che veniva suonato era fatto con una zucca allungata essiccata fino a
raggiungere la durezza della plastica. Cinque corde ricavate da una lenza da
pesca, fatta chissà come, legate al palo di legno che serviva come manico dello
strumento. Quattro corde si estendevano fino alla fine del palo, la quinta era
legata al corpo dello strumento ed era più corta e dava i toni un po’ più alti.
Il ponte era scolpito a mano che manteneva le corde, separate dalla membrana di
pelle di capra che copriva il taglio effettuato sulla zucca. Nella lingua degli
africani che lo portarono nel sud degli Stati Uniti si chiamava banjo.
In
mano ai bianchi lo strumento diventò gradatamente come lo ricorda qualcuno di
noi, se vogliamo ricordare. E perse gradatamente il ruolo e la funzione, sostituito
dalla chitarra.
La
prossima volta mi ricorderò di come era strutturata una canzone blues. Perché il
blues è triste, ma fedele nella memoria.
John Lee Hooker, Boogie
Chillen. Ma se sentiremo molti altri.
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